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Loretta Dorbolo

Note biografiche personali

loretta dorbolò   

Note biografiche personali

Dintorni di S.Pietro al Natisone e cima del MatajurLoretta Dorbolò è nata a San Pietro al Natisone (Udine) nel 1950. Nel 1970 si è trasferita a Concordia sulla Secchia (Modena) dove ha svolto l'attività di insegnante elementare ed ha iniziato a dipingere da autodidatta. Ha iniziato ad esporre i suoi quadri nel 1977, ottenendo rapido successo di pubblico e di critica.

Dopo aver partecipato a numerose collettive e rassegne, nelle quali ha conseguito premi e riconoscimenti, ha tenuto mostre personali in diversi spazi pubblici e Gallerie. Nel 1983 ha fatto parte del gruppo di pittori scelti per illustrare il romanzo "Il tesoro del Bigatto" di G. Pederiali; per i modi estrosi, divertiti e ironici della sua pittura, diverse volte è stata richiesta la sua opera per l'illustrazione di romanzi e raccolte di scritti.

Nel 1988 Loretta Dorbolò ha fatto parte dei trenta artisti inseriti nella collana d'Arte "Quelli che contano" di F. Anselmetti, Edizioni Marsilio, presentato in Campidoglio. Nello stesso anno le sue opere sono state pubblicate nel catalogo "Quaderni Artisti Italiani d'oggi" nr. 526, per le Edizioni Ghelfi.

1976 Cima del Matajur e mulino in lontananzaLa carriera dell'artista ha conosciuto un momento fondamentale nella celebrazione del ventennale artistico, avvenuta nel 1997, per iniziativa dell'Assessorato alla Cultura di Concordia; del Comitato Promotore hanno fatto parte diversi Comuni ed Enti pubblici dell'Emilia Romagna e del Friuli. Una Mostra Antologica (1977-1997), accolta in sedi prestigiose, e la pubblicazione del libro La notte dei falò sono stati gli eventi più significativi. Il libro raccoglie, con le opere pittoriche, gli scritti e le riflessioni che hanno accompagnato il percorso creativo di Loretta Dorbolò sono l'espressione di una interiorità a lungo coltivata, testimoniano un continuo scambio tra pensieri e immagini e ne giustificano la grande tensione emotiva.

1998 e 1999 le opere di Loretta Dorbolò hanno goduto di alti consensi in Belgio ed in Svizzara. I successi e le numerose richieste di esposizioni hanno indotto l'artista ad abbandonare l'insegnamento a favore della pittura...

"Con i bambini avevo la sensazione di crescere ogni giorno un po'. Con loro nulla sembrava utopia. Insieme cercavamo di scoprire da dove potesse nascere gioia di convivenza. La loro schiettezza era bellissima e la serietà del loro impegno mi accendeva di speranza.
Avevo poco tempo per dipingere ora ne ho di più ma troppo spesso il mio pennello barcolla come sul filo dell'acrobata" (2002)

Nel 2001-2002 la Mostra Antologica di Finale Emilia è stata posta al centro di interessanti iniziative culturali con la partecipazione, oltre ad altri, di Duccio Demetrio e Dacia Moraini.

Nell'ambito della Mostra è stato importante anche il coinvolgimento di scolaresche. L'interscambio con i bambini e l'amore per l'infanzia hanno fatto parte dell'esperienza di vita e del mondo artistico della Dorbolò ma la sua opera è andata ben oltre il motivo personale e la rievocazione commossa del mondo perduto dell'infanzia.

La complessità dei motivi ispiratori e lo spessore dell'esperienza sia pittorica che letteraria spiegano il vasto interesse suscitato. Nel 2003 il ritratto di Loretta Dorbolò ha trovato posto nell'opera di Damir Globocnik e Tihomir Pinter dedicata agli artisti sloveni in Austria e in Italia, pubblicata a Lubiana.

2006: Studio con opere in sospesoDal 2002 al 2007 c'e' un vuoto.

"Si ci sono dei vuoti nella vita di un artista.
Succede quando il vento contrario impone le sue prepotenze.
Ci sono degli stati paludosi dai quali poi, da soli, si impara ad uscire, a quattro zampe o sul filo come equilibristi senza rete.
E quando il pianto alleggerisce il cuore tornano le voci nel pennello a raccontare ancora gli ideali ma anche le incoerenze e le utopie. (2006)

Nel 2007 le opere grafiche di Loretta esposte in una mostra di grafica internazionale a Reggio Emilia, sono entrate a far parte della collezione Menozzi, donata alla Biblioteca Panizzi della stessa città. (Catalogo: Ai margini dello sguardo. L'arte irregolare della collezione Menozzi.)

Le opere del filone amoroso-passionale della Dorbolò, sono stateospitate al Foro Monzani, in uno spazio speciale di "Lo sposalizio" di cui Mara Moretti è titolare ed organizzatrice.

Un altro momento importante, al Torrione di Castelnuovo Rangone dove, in occasione del IV Festival della Poesia Internazionale, la Dorbolò ha esposto opere di interpretazione pittorica della poesia di Giulia Martini.

Nel 2009 "Equilibristi senza rete" un importante antologica sui 30 anni di pittura di Loretta è stata accolta dalla città di Pico e dal suo stesso Castello in Mirandola (Modena)

Veduta da Cividale verso le valli del Natisone

"Equilibristi senza rete perchè abbiamo perso il contatto con le radici, perchè ci affidiamo alle follie del vento e della corrente. Equilibristi senza rete perchè ci affanniamo a cercare lontano, altrove, più in là quello che è sempre lì dove già sapevamo fosse. 2009"

Nel 2010 il successo ha toccato l'apice in "Lo deciderà il vento" Titolo della mostra antologica di Cividale del Friuli (chiesa di S. Maria dei Battuti) e Gorizia (Kulturni dom)

La multietnicità dei visitatori e la numerosissima frequentazione ha ancora una volta rimesso in risalto l'universalità del linguaggio pittorico di Loretta ed il fervore dei sentimenti che essa sa produrre.

Non sento più attuale la domanda: "Speranza o utopia?" Non c'e' speranza che non sia un po' utopistica specie se riguarda le sorti dell'uomo sulla terra in qualsiasi tempo esso viva. Oggi so che bisogna sperare fino all'utopia.

chi è loretta dorbolò

Loretta a 2 mesi - regalo di compleanno 2010 da parte di Rina e LuigiLa chiamavano Codes l'ultima bambina nata in casa Dorbolò, detti i Tonzinella, in un mattino di luglio del 1950.

Famiglia in attesaLoretta cresce con i genitori e tre sorelle in una famiglia allargata - con nonna, zii e cugini - in quel di Biarzo, un piccolo borgo del comune di San Pietro al Natisone, fatto di poche case raggruppate intorno al fiume Natisone e ai piedi di quei monti della Slavia friulana che tanto hanno potuto nel suo immaginario emotivo e artistico.

Fanno storia i valori, le tradizioni, il sudore della terra, i tanti adulti che si occupano di una moltitudine di figli e nipoti, in un susseguirsi di stagioni e ruoli: i mesi della semina e del raccolto, i mesi freddi fatti per radunarsi numerosi intorno al tepore del camino a conversare e raccontare le antiche storie di orchi e di streghe: personaggi fiabeschi della tradizione popolare, la cui origine si perde nella notte dei tempi.

Fanno la loro comparsa ricordi piacevoli dell'infanzia, forte di affetti e attenzioni. Più conflittuali, invece i rapporti da adolescente, quando il suo spirito ribelle cozza contro quella parte di mondo adulto che guarda solo alle apparenze.

Seguono le amicizie, i primi diari che raccolgono le timide confessioni di un'anima inquieta, che spesso si sente incompresa.

Il fiume NatisoneIl matrimonio è il momento massimo nel quale sogni, speranze e fiducia in un avvenire radioso si fondono. Ma seguire l'uomo prescelto e lasciare la propria terra porta con sé quella nostalgia della memoria che insinua una sottile e tenace sofferenza, sanata proprio attraverso la pittura. Le tele si popolano di ricordi e fantasmi che finalmente si materializzano e la portano ovunque: non vi sono regole né confini per la Dorbolò, la sua mano è guidata da una spontaneità totale, da profondi moti dell'anima.

Casualmente inizia ad esporre, su richiesta di un comitato di beneficenza del suo paese. Da quel momento giungono i primi apprezzamenti, le critiche positive, l'inserimento nella esposizione di Luzzara, al Premio Nazionale dei Naïs.

Ma la sua pittura non sempre è stata accostata a questo genere: in realtà le sue opere sono un'espressione molto personale, una raffinata ricerca stilistica fuori da ogni schema o corrente artistica a cui si voglia fare riferimento. Il solo accostamento possibile è quello legato alla spontaneità: sulle tele, nei decenni, sono state riversate immagini e momenti scaturiti da un'interiorità a lungo coltivata.

Più che i riconoscimenti dei critici, è il pubblico il forte detonatore che stimola l'artista a continuare questo delicato, passionale e intenso dialogo, che dal 1977 in poi non si è più interrotto.
Anche i bambini, negli anni in cui è insegnante, le sanno trasmettere la loro creatività e la gioiosa voglia di vivere.

L'infanzia reale e quella simbolica si intrecciano nella pittura di Loretta Dorbolò, come se quella fosse la migliore stagione possibile: e se fosse proprio così?

Alberto Melotti

a proposito di ricordi

1951, le quattro sorelle TonzineloveEra una mattina di luglio, gli uomini erano già saliti sulla montagna per falciare l'erba. A casa erano rimaste mia nonna, qualche zia e mia mamma che stava per partorire. Tutti aspettavano curiosi. Nel pomeriggio qualcuno raggiunse i falciatori per raccontare la novità: Olinta dei Tonzinelovi aveva avuto la quarta bambina! Potete immaginare come sia rimasto mio papà Elio, dopo aver tanto desiderato un maschio! Lui e mia mamma, però, si volevano tanto bene da essere contenti ugualmente; penso che, la sera stessa, fossero felici della mia nascita, anche se ero la quarta femmina.

Così, dopo Mariuccia, Nives e Bruna, era arrivata Loretta, la più piccola dei Dorbolò di Biarzo, detti i Tonzinella.

Il mio piccolissimo paese si trova in un angolo del Friuli per me un po' speciale, dove posso sempre riassaporare quelle tradizioni capaci di restituirmi un piacevole senso di appartenenza. Biarzo è situato sulla riva sinistra del fiume Natisone, in una specie di conca, sotto la strada che da Udine porta al 1951 nonna Mariaconfine con la Slovenia. La Valle del Natisone, insieme a poche altre, costituisce la Benecia, dove si parla un dialetto sloveno poiché tale è l'origine degli abitanti. Sono cresciuta in quella povera valle, dove la gente viveva coltivando un unico campicello o allevando una sola mucca, dove gli uomini erano spesso costretti ad emigrare e le donne dovevano imparare a "tirare avanti" da sole. A far crescere i bambini li aiutava l'abbraccio della valle, fatto di tante piccole cose che sapevano lasciare addosso un profumo ed un sapore particolari. Nella mia famiglia eravamo in diciassette, era la più numerosa tra le undici che componevano il mio paese.

Stavamo tutti insieme in una grande casa dove mia nonna Maria, vedova di guerra, aveva dovuto far crescere i suoi sette figli da sola, ed ora continuava a tenere le redini con la stessa severità. Ognuno aveva il proprio ruolo e, anche se eravamo in tanti, non ricordo neppure una volta in cui ci fossero dei disaccordi. Forse la nonna era davvero tanto saggia e forse le sue nuore ed i suoi figli avevano talmenteProfumo di polenta, 1990radicata la consapevolezza di dover rispetto agli anziani che seguire le sue direttive non sembrava di peso a nessuno. Tutti le davano del voi, persino i suoi figli. Aveva gli occhi verdi che sembravano sempre arcigni e teneva le labbra come se fosse un po' imbronciata, diceva sempre di no, ma poi sempre faceva e sempre dava. Mi piaceva tanto quando scorgevo un sorriso nel suo sguardo. Ricordo ancora quando per fare una sorpresa a noi bambini, al ritorno da scuola, arrostiva le castagne, e rivedo quel sorriso che si lasciava sfuggire solo a metà perché quasi aveva pudore della gioia che le proveniva dal vederci tutti intorno alla tavola a mangiare allegramente. La nonna si occupava della cucina. Tutte le mattine impastava il pane e preparava degli enormi pentoloni di minestra che poi lei stessa, al momento del pranzo, distribuiva. Era lei, infatti, che sapeva le misure del piatto da uomo, quello da donna o da bambini: era precisissima. Si sedeva al suo tavolino personale, un po' in disparte, quasi a controllare la situazione. Strano! Ritengo di essere una donna moderna, eppure è con tenerezza che ricordo la preferenza e la dedizione particolare che mia nonna aveva per i maschi. Gli uomini dovevano lavorare e quindi nutrirsi meglio, i ragazzi maschi dovevano crescere robusti per la stessa ragione e perciò le donne e le bambine dovevano servirli e mai contrastarli. L'ora del pranzo era bellissima; la domenica la radio suonava Musiche a richiesta, le mie sorelle lasciavano un momento la minestra per ballare con i cugini. Io ero troppo piccola e nessuno mi voleva, allora persuadevo mio papà a lasciare la minestra e a farmi fare un ballo. La nonna guardava un po' per traverso, ma ancora le sfuggiva quel sorriso a metà.

Loretta con la sua bambina Benedetta, Concordia 1974Mi chiamavano Codes, poiché ero la coda della famiglia, e venivo sempre difesa dagli adulti, ma le mie sorelle e i miei cugini trovavano sempre il sistema per trasmettere a me gli ordini che si erano sentiti a loro volta dare; bastava che mi promettessero di includermi nei loro giochi ed io eseguivo tutto di corsa. Sono sempre stata una ribelle indecisa; anche a quei tempi, quando i cugini, ormai ragazzini che aiutavano a falciare l'erba in montagna, mi mandavano con "aria da maschio" a prendere l'acqua fresca con i fiaschi: io facevo sempre la bisbetica, dicevo che non ci sarei andata, ma poi cedevo.

Avevamo un mulino nel quale lavorava lo zio Faustino, che non era sposato ed era un po' il cervello della casa; la nonna, per riguardo alla sua salute, gli preparava sempre un piatto di minestra diverso dagli altri. Ricordo ancora l'attenzione che noi bambini prestavamo ad un eventuale avanzo in quel pentolino, ma la nonna non sbagliava mai la misura. Quando lo zio Faustino leggeva il giornale o faceva la contabilità, stavamo tutti in silenzio assoluto. Nel mulino collaboravano anche papà e Vigiut, l'altro zio sposato.Piccolo camino, 1994 Trasportavano con i carri la farina, ma soprattutto, insieme alle loro donne, lavoravano nei campi, in montagna e nella stalla. In famiglia c'erano tre zitelle, una già anziana, sorella di mio nonno, e due di mezza età sorelle di mio papà. Una di esse, la zia Erminia, al sabato andava al mercato di Cividale a fare degli acquisti per tutta la famiglia, e quando tornava noi nipoti le correvamo incontro alla corriera per rovistare a gara nelle borse. Aveva l'abitudine di portare a casa pane all'olio e mortadella e per noi, che eravamo abituati al pane fatto in casa, mangiare quello acquistato in panificio, e poi con la mortadella, era veramente una festa. La zia Iginia, invece, trascorreva le giornate sul poggiolo, con gli occhiali abbassati sul naso, a cucire e rammendare la biancheria di quasi tutti noi; era la zia delle preghiere, quella degli inviti severi agli esami di coscienza (era vissuta a lungo, infatti, con i due sacerdoti fratelli di mio nonno). Quando mi scappava una bugia, lei da sotto gli occhiali mi guardava in silenzio ed io immediatamente in quegli occhi leggevo peccato veniale; allora in fretta ritrattavo. I racconti della zia mi avevano talmente dato in immagini l'idea dell'inferno e del paradiso che ancora adesso ne subisco l'influenza. Era la zia dalle ironie sottili, osservava le scollature delle maniche delle due cognate e la lunghezza delle gonne di noi bambine. A noi nipoti diceva sempre: «Non ci si muove così, non si pronuncia così, non si dice Niiives, si dice Nives!». La zia Angelina, conosceva invece tutte le storie degli strasili, delle crivapete, delle tantasmote, e mentre cuciva le pantofole di gomma e di velluto per tutta la famiglia, raccontava.

Il mulino vecchio, 1992Noi bambini ascoltavamo a bocca aperta e tenevamo il fiato sospeso tutte le volte che lei faceva pausa, portandosi il pollice e l'indice ai lati della bocca. Ascoltavamo di una certa crivapeta, una donna con talloni rivolti in avanti che mangia i bambini, e di una certa tantasmota, donna dalla voce molto suadente che ti invita insistentemente a seguirla. Tu la segui incantata finché ti ritrovi in luoghi pericolosissimi, dove la tantasmota ti abbandona e tu precipiti in qualche burrone. Fiabe da brivido, e sono certa che ne subirei ancora il fascino, perché poi non è che gli adulti fossero del tutto consapevoli di raccontare favole; io ho sempre avuto l'impressione che anche i grandi parlassero di questi misteriosi esseri temendoli quanto noi bambini.

Ricordo infatti il periodo in cui si scartocciavano le pannocchie e nella mia casa si riunivano anche gli altri paesani, un po' per dare una mano ma molto per il piacere di stare in compagnia. Se ci penso, mi viene in mente identica l'atmosfera di quelle bellissime serate, fatte di occhi sgranati, di orecchie tese, di risatine incerte, di fiati in sospeso e del gesticolare di chi raccontava con espressione misteriosa e voce grave di fantasmi, di stralisi, crivapete e tantasmote. Tutti, grandi e piccini, erano attenti e le voci diventavano sommesse, il bisbiglìo delle donne più fitto e gli occhi dei bambini attenti alle finestre e alle porte e al fruscio dello scartocciare le pannocchie. Mi ritornano alla mente, a proposito di serate a Biarzo, quelle in cui un uomo di un paese vicino veniva a suonare la fisarmonica. La mia casa era una delle più grandi, quindi di solito, nonna permettendo, tutti i paesani giovani e vecchi si portavano dietro la loro sedia e venivano a far festa da noi. Le cugine e le sorelle erano già ragazzine, io invece avevo il solito problema di trovarmi un ballerino per la mia misura; allora ballavo con qualche anziano.

S. Pietro al Natisone  IV magistrale 1968/69, Loretta prima a destraOgni paese aveva le sue maschere tradizionali e il Carnevale, che da noi si chiamava Pust, era rappresentato da una maschera addobbata di campanacci. L'uomo così mascherato entrava in paese per primo, lo attraversava di corsa con un gran fragore, poi andava a riprendere gli amici mascherati. La corsa del Pust, secondo le tradizioni, aveva lo scopo di mettere in fuga gli spiriti cattivi.

Tra le bellissime serate della mia infanzia a Biarzo, ho vivissimo il ricordo della notte di San Giovanni, la notte del Kries. Tutto il paese collaborava per fare il falò e c'era tutto un correre di bambini col loro fascio di legna, mentre i più grandi giungevano con le cariole. Io aspettavo con ansia che il sole tramontasse e poi, finalmente, arrivava il grande momento. Tutte le famiglie di Biarzo si riunivano intorno al grande falò. L'usanza voleva che prima ci si scaldasse con la faccia e poi con la schiena rivolta al fuoco; questo era una specie di scongiuro contro i dolori reumatici. Nella stessa notte brillavano da lontano i falò dei paesini sulle montagne intorno. Mentre il fuoco lentamente si spegneva, noi tutti riuniti intonavamo canzoni. I canti erano tutti malinconici e tristi, Vecchio scarpone, Vola Colomba e poi i canti in sloveno, amorosi, agresti e Il pianto dell'emigrante: Oi bosime, oi bosime tele dolinze... (Addio a queste valli, padre e madre, quanto mi costa lasciarvi...). Ognuno poi ritornava alla propria casa.

Il fagotto, 1996La grande famiglia si è divisa alla morte della nonna, quando avevo dodici anni, ed io ho conosciuto il primo grande dolore per un distacco. Con i miei genitori e le mie sorelle, mi sono trasferita a soli due chilometri dal mio borgo, dove non si sentiva più così da vicino il respiro delle mucche e non c'era più la compagnia degli animali dei cortili di Biarzo. Lì ho vissuto gli anni dell'adolescenza, anni che mi parevano, nell'inquietudine di allora, molto difficili, ed ora sono invece fonte di dolci ed importanti ricordi. A San Pietro ho frequentato l'Istituto Magistrale e Vetrina della cartolibreria Sorelle Ghidoni, Concordia (MO), Novembre 1976per i miei genitori, abituati alle altre figlie diligentissime, io sono stata un vero grattacapo: ero molto più interessata all'amore, al disegno ed ai miei diari che alle cose scolastiche. Quando avevo diciott'anni, è passato di là un soldato che proveniva da un paese vicino a Modena e mi sono innamorata. Mi sono sposata a vent'anni, con l'impressione che matrimonio fosse inizio di vita, che avere vicino l'uomo scelto significasse essere in possesso di quei pilastri sui quali ogni cosa costruita sarebbe sicuramente stata valida. Così, lì per lì, ho lasciato il mio paese d'origine senza degnarlo di uno sguardo, piena d'ansia e di curiosità. Ma era novembre ed io, prima di allora, la nebbia non l'avevo mai conosciuta. Quella soffocante nube mi impediva di vedere dove stavo andando; io volevo il sole, la luce, avevo bisogno di vedere dove mettere i piedi, invece quel grigiore, quel mio girare tra le nuvole, è durato per tanto tempo.

Jè su po svìate (È andato per il mondo), si diceva dell'emigrante dalle mie parti. Era diffusa la convinzione che chi se ne andava sarebbe comunque stato meglio, ma non sempre era così. Ora sono per il mondo, e mi sembra che ognuno sia solo e ognuno abbia paura e, poiché ha paura di prenderle, sta pronto a darle. Ognuno sta nella propria casa. Quando lungo la strada la gente si incontra, sembra si stringa la mano senza sentimento, sembra che nei sorrisi ci sia solo il segno della bocca, ma se si sta attenti, se si guarda bene, si vede che ogni mano chiede di nascosto... quell'amicizia che non osa più sperare, per cattiva abitudine. (1977)

Poiché sono sempre stata una donna di poche parole, qualcuno qui mi aveva definita nordica di ghiaccio.
In un giorno di festa, le sorelle Ghidoni esposero i miei quadri nelle loro vetrine, offrendomi l'opportunità di essere conosciuta attraverso le immagini della mia pittura. Così ho cominciato a capire che la solitudine si supera andando incontro e non aspettando. Ogni volta che scopro in qualcuno i miei stessi desideri, le mie stesse speranze mi sembra di sentire, anche dopo tanti anni, anche se in un paese diverso, lo stesso odore del pane che mia nonna sfornava.

Scorcio su granaio - esposizione permanente

E adesso che sono nonna alle domande del mio nipotino non so rispondere se non con le stesse parole che davano conforto a me quando ero piccola. Vorrei per lui trovare i pensieri che danno il senso al cammino con il passo sicuro di chi procede nell'amore e nel rispetto ma senza farsi calpestare. 2009.

 

LORETTA DORBOLÒ - studio con esposizione permanente • 41039 San Possidonio (MO) Via G. Matteotti, 78
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