Loretta Dorbolo

Antologia Critica

loretta dorbolò   

Antologia Critica

Le recensioni, di cui di seguito riportiamo stralci, sono una parte degli interventi critici apparsi in questi anni in occasione dì mostre di Loretta Dorbolò.

Massimo Jasonni (2012) - Dipingere il silenzio - Pubblicata sulla rivista Il Ponte del mese di Novembre

L'oggetto delle attenzioni di Loretta Dorbolò è chiaro. Non parlo delle attenzioni, che so?, domestiche, professionali o frutto di mera curiosità, parlo di quelle attenzioni in forza delle quali chi ha sensibilità artistica vede probabilmente oltre, al di là e certo in modo diverso dagli altri.

Occorre - per capirci e per entrare nella dimensione della lettura poetica del mondo - farsi fanciulli, o tornar fanciulli. Non in omaggio alla teorica pascoliana del fanciullino, ovvero a una poetica crepuscolare e tendenzialmente decadente, ma in forza di un retroscena potente, ben più sostanziale e profondo. La memoria, uscendo dalla provincia romagnola e addentrandosi nell'orizzonte mitteleuropeo dei primi del '900, ricco di luttuose premonizioni, corre a Rilke ma, prima ancora, a Beaudelaire: "Il jou avec le vent, il cause avec le nouage". Il poeta è un adolescente che gioca col vento, che litiga con le nuvole. Qui, nelle tele in discorso, spesso c'è vento; non di rado ci sono nuvole. Vi si respira un'affine inquietudine

Questo approccio dell'arte alla realtà, tutto suo proprio e particolare, lo ritroviamo in nuce in Occidente nella teologia cristiana. Quando i Vangeli dicono che per entrare in paradiso occorre l'animo candido dei bambini, dicono una cosa che non si risolve solo nell'emancipazione religiosa dal male insito nell'età adulta, ma che porta anche alla ribalta della cultura continentale un'idea di leggerezza e di libertà, che compone e, vorrei dire, disciplina l'esperienza artistica. La stessa leggerezza, la stessa libertà che per appunto riscontriamo nei giochi dei fanciulli: imprevedibili sempre, talora disarmanti ai nostri occhi.

Circa l'indirizzo dello sguardo di Loretta Dorbolò, esso mi pare bene impresso nell'immagine e nelle parole dell'invito all mostra. Ben presente nelle pagine di diario che Franca Lovino ha scelto e letto con la profondità e il fascino, che sono impressi nella sua voce. Ben presente nell'idea del Dipingere il silenzio e nel dipinto riprodotto, quello dell'albero con grandi, impressionanti radici, e povere, viceversa, rinsecchite fronde.

Le foglie vibrano, presagiscono un diluvio da cui non c'è ombrello che ripari. Esse imprimono alla tela un movimento convulso che contrasta con quel più generale senso di quiete, quella stasi e quell'approdo silenzioso che felicemente ci coglie camminando per i locali della mostra. Il quadro, risalente al '97, rappresenta una donna aggrappata all'albero, avvinghiata: pare vi dorma sopra, pare che quel sonno sia il sonno profondissimo di una giovinetta, che nessun rumore potrà turbare. In altra ipotesi - ma non cambia l'esito del discorso - quell'abbraccio assume la veste dell'amplesso amoroso. Il ramomoribondo, ma con grandi radici, in quest'ipotesi è l'amante. Un uomo che ha una grande storia alle sue spalle, ma non ha futuro.

Dichiaratamente in linea anche il titolo della mostra. Dipingere. E cosa? Dipingere il silenzio.

Dipingere come costrizione, come pulsione inevitabile, come necessità di vita e riscatto, o, che è lo stesso, come anelito alla fuoriuscita della vita. Viene in mente Saba: "faccio poesie come la gallina fa l'uovo". Ecco, egualmente Loretta Dorbolò fa dipinti assecondando una biologia, innalzando la sua vela al vento: si fa trasportare.

.Il silenzio. Qui il discorso si allarga, come lontano, merita forse un qualche approfondimento, pure per bocca di chi, come chi vi parla, non è un "critico laureato".

Certo il silenzio è un antidoto contro il chiasso che ci circonda. Le televisioni, questo drammatico degrado della politica. Ciò che Pasolini - in sontuosa sintesi tesa a fotografare una mutazione antropologica - definì come "morte delle lucciole". Ma non credo sia solo una difesa del sè, una custodia della propria interiorità o una fedeltà all'estrazione friulabna, così diversa da quella emiliana. Nè credo sia solo una proposizione di tipo aristocratico, una distanza assunta dalla volgarità dell'ora presente. Tematiche pure impresse nel modo stesso di procedere, di dirsi si Loretta Dorbolò: basta sentire come Loretta usa il verbo, con quale apparente flemma, con quale reale autorevolezza lo declina.

Occorre allora, un attimo, un attimo appena riflettere sul motivo del silenzio. Il silenzio è un motivo biblico di straordinaria pregnanza religiosa, quindi etica, che ha finito per tradursi in regola starei per dire militare di condotta. Mi riferisco al punto 6 della regola benedettina, ove non solo si afferma il valore sacro del silenzio, come anticamera per ogni possibile dialogo con Dio, ma si condiziona la permanenza in monastero alla pratica del silenzio. Etiam de bonis tacui: tacqui anche quando sapevo di essere nel bene, quando ero cosciente di essere nel giusto. Come vedete bene, in questa regola si ciela un principio di umiltà, un rispetto dell'autorità, un controllo di sè, una riservatezza tutti iscritti nel percorso più nobile di quella storia bimillenaria che, nel segno della Croce, è nella nostra storia.

Ma c'è un silenzio anche d'altro tipo, che, parlando delle tele di Loretta Dorbolò, è opportuno non trascurare. Qui si esce dall'orizzonte dogmatico, proprio dell'universo monoteistico, e si entra in un apollineo contesto di sapienza antica. Episteme, per chi ha fatto il classico. I greci conoscevano perfettamente il silenzio, non lo intendevano come frutto di un segno divino sul mondo, ma, al contrario, come luogo e momento privilegiato in cui la natura si esprime autonomamente, dice di sè, si disvela. L'uomo è chiamato, in quel luogo e in quel tempo, a sospendere il giudizio, a tacere.

Due esempi suggestivi, di cui mi perdonerete. Il primo: un frusciofra gli abeti, e il riflesso accecante di tanta neve sulle vette della montagna; il secondo: una brezza di mare appena irrobustita che gonfia la vela, (quella proprio quella che consentì a Ulisse una prospera navigazione, riconducendolo finalmente in patria).

Non c'è niente da dire, non c'è nulla da esprimere. È in gioco solo la capacità di ascolto. Ciò distingue chi sa appartarsi in silenzio, da chi chiacchiera e, diciamocelo, ci infastidisce.

Pensate poi alla musica. Due sono le ipotesi, e tra di loro contrastanti. Altro è un silenzio consistente in assenza di voce data alle corde o ai fiati. La cattiva musica trascrive così una sua disarmonia, una sua intrinseca debolezza melodica. Ben altro caso è quello dello spazio impresso ad arte tra le note, una dilatazione inattesa e redimente. Questo è tipico della grande musica. Bach vi ricorre spesso. In quel silenzio delle variazioni Goldberg, o delle suites per cello solo, cogliamo la presenza dell'assoluto: ci eleviamo, la porta stretta si apre, il sacro viene a noi.

Noi amiamo - la pittrice lo sa - le tele grandi di Loretta Dorbolò. Nelle piccole talora riscontriamo una sorta di concessione, quasi un'indulgenza di tipo nostalgico, se non proprio un appartarsi nell'ordine più privato e sentimentale delle cose.

Nelle grandi tele, ma non solo in quelle, regna un equilibrio e governa una sapienza descrittiva che prende forma: ne scaturisce la memoria pulsante di un mondo contadino, oggi disperso e pur sempre presente nel segreto del nostro cuore. Loretta Dorbolòcelebra i ritmi, le saghe, i sogni di quel mondo.

Qui canta un'artista che non ha nulla a che spartire coi naif, come bene annotava Sgorlon presentando nell'86 a Roma, presso la galleria Feluca, una Personale che si segnalò in sede nazionale; e poco anche deve alle suggestioni, alle grandi suggestioni della pittura simbolista, ma che introduce, nel desolante vuoto attuale della poesia, una voce personale densa, e di sicuro spessore.

Vittoria Dragone (2010)

[...] Sradicata dalla terra natale, l'artista conferisce a un passato appagante la capacità di percepire segnali premonitori per un presente deludente: paura di incomprensione, difficoltà nell'adattamento, insicurezza per la persa protezione della famiglia, il morso delle nostalgie e li raffigura in emblematiche immagini. Ecco la ragazza collocata in una tana senza radici, nascosta dietro l'ombrello, che ripara dai venti avversi, o isolata in cima ai massi sotto un cielo grigio, avvolta dalla solitudine; oppure rifugiata tra i rami di un albero contorto, in precario equilibrio per via delle radici che non riescono a conficcarsi nella terra di un isola in balia a un fiume in piena; o ancora angosciata per l'impossibile volo dei sogni con le ali tagliate dalle streghe.

Il senso dello scompenso si estende anche nella vita della collettività: la gente sulla giostra che si rompe al tremare della terra, si trova scagliata per aria; i ciclisti, sulle biciclette, sono presi in un inutile girotondo, in una lotta contro "i mulini a vento", o, come equilibristi senza rete, volano caoticamente in una dimensione onirica, oppure provanovane fughe.

Sembra che il rimedio suggerito dall'artista per placare il tormento dell'anima, il peso del distacco, o i pensieri senza ponti, e per ritrovare la speranza di sereno, siano le amorose follie, un abbraccio intenso, lungo fino all'aurora con la complicità della luna, o l'amore materno che è più dell'immenso

I simboli del mondo abbandonato, rimasto nella coscienza come oasi di felicità, di gioia di vivere, movimentato e patriarcale, spensierato e tradizionale, hanno sfumature smorzate, d'effetto seppia, come la nostalgia stessa. In questa seconda parte troviamo partecipi alle traversie dei personaggi la natura, gli animali, gli oggetti: gli alberi appaiono sradicati, contorti, flessuosi in balia delle intemperie, sembrano avere dentro l'irrequieto soffio dei dannati, altre volte con i rami formano un cuore per offrire un precario riparo solitario, i fiumi sono in piena, torbidi ed implacabili, i cieli vertiginosi viola, blu cobalto, o esplosi in giallo accecante sul quale si pettinano le streghe; le galline nervose odepresse, le sedie vuote, raggruppate in un silenzioso cerchio, alludono alla mancanza di comunicazione.

Non so se la potenza del segno e del colore o l'intensità della lirica e delle riflessioni esprimono meglio la personalità dell'artista, ma con la sua sensibilità Loretta recepisce, in entrambe forme artistiche, il profondo senso della transitorietà dell'uomo nel tempo sottomesso alla forza modellatrice del proprio destino.

La sua arte sembra superare i confini, i limiti temporali o spaziali, e toccare l'alto cielo dell'universalità, dove si incontrano le muse per concordare sulla bellezza della verità e scegliere la bianca fiamma del talento per posarla come dono prezioso sulle anime nobili ed avvicinarle al profimo di un respiro eterno.

Michele Obit (2009)

Non sono rare le immagini che raccontano questo piccolo mondo chiamato Benecia, ma poche come quelle di Loretta Dorbolò sono capaci di farcelo amare e nello stesso tempo di provare quella nostalgia per le cose perdute che avevano un grande valore. Quando si guarda un dipinto come il ritorno degli emigranti non si può non salire, bambini, su quella giostra, e non provare la gioia di un abbraccio atteso a lungo. Quando osserviamo i quadri che raccontano i piccoli-grandi miti di questa terra, non possiamo non dirci partecipi dei misteri ancora insoluti, così come quando seguiamo il volo degli "eqiolibristi senza rete" non possiamo non provare la sensazione del vuoto, dell'abbandono.

I colori e le forme di Loretta Dorbolpò, così come le sue stesse parole poetiche, raccontano la speranza e l'amarezza legate all'amore per le Valli del Natisone. Per questo motivo il circolo di cultura sloveno Ivan Trinko, in collaborazione con altre associazioni della Benicia, si è adoperato per realizzare una mostra antologica di Loretta Dorbolò che non vuole essere solo un dovuto omaggio. Colori, forme e parole sono memoria, sono ciò che rimane, sono un punto fermo del quale noi possiamo aprirci al mondo, e provare a credere che "mirare al meglio da qualsiasi punto ci si trovi" si può

Alfredo Gianolio (2009)

Osservate ad un ventennio di distanza le sue opere dimostrano un'interna coerenza, delle linee di fondo che rimangono inalterate, che se cambiano certi scenari e alcuni temi, in quanto la Dorbolò è rimasta fedele a se stessa, alla sua sensibilità. Al suo immaginario, senza lasciarsi condizionare da mode o da indirizzo di tipo accademico, o da facili avanguardismi di maniera.

Ha risolto positivamente il rapporto esistente tra passato e presente proiettandolo nel futuro. Ha ritenuto ancora valide le considerazioni compute giusto un secolo fa da Augusto Renoir, il grande impressionista, in un ambito socioculturale ben diverso dal nostro, considerazioni comprese nella presentazione al "Libro dell'Arte" di Cenino Cennini, trattatista vissuto tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo:

"Bisogna evitare di irrigidirsi nelle forme che abbiamo ereditato dal passato ma non bisogna pretendere, per amore del progresso, di staccarci completamente dai secoli che ci hanno preceduto. Tendenza questa, peraltro molto diffusa e facilmente spiegabile: Negli ultimi cento anni sono state fatte scoperte meravigliose, che gli uomini, abbagliati, sembrano aver dimenticato che altri sono vissuti prima di loro".

Nella Dorbolò non vi è mai una spaccatura tra il suo essere, la sua interiorità, la sua personale vicenda e la sua rappresentazione visiva, in cui il "fare", il memento dell'esecuzione ha una propria fondamentale importanza. Non si è mai ridotta ad raccogliere oggetti limitandosi a dare ad essi un nome e una collocazione impropria.

Per lei èessenziale il legame con la realtà intimamente e socialmente vissuta. Scrisse nel 1978 ne "La notte dei falò": La vita di ognuno di noi è come un grande albero, ovunque può estendere i suoi rami, purchè non si separi dalle propria radice".

La conseguenza derivante dal taglio del ponte con le proprie radici è la follia, dice, Una follia in bilico, tra il nulla e l'attesa di un'alternativa che non si delinea e non si presenta, lasciando l'animo sospeso. Uno stato d'animo, un'ambientazione nel territorio di origine, una problematica esistenziale che trovano una perfetta e sorprendente corrispondenza nella narrativa dello scrittore, friulano come lei, Carlo Sgorlon i cui racconti, ha osservato Geno Pampaloni, sono la variante di un itinerario che attraversa il medesimo paesaggio, sempre in attesa di una visione liberatoria delle pastoie della realtà quotidiana... I rintocchi del destino insinuano un allarme di tragedia nel fastosi tumulto della felicità".

Gian Luca Tusini (2009)

La pittura di Loretta Dorbolò, sempre che se ne accetti la naïveté - anche solo per questioni di comodità di giudizio - è tutt'altro che "facile". E la stessa autrice non ha potuto fare a meno di interrogarsi su questo preteso carattere innocente, primitivistico della sua pittura, sulla scorta delle sollecitazioni di una critica che sembra aver sempre l'urgenza di incasellare, nominare, etichettare, oltre a frequentare volentieri non pochi luoghi comuni

Intelligentemente Loretta non cede alla troppo facile dialettica naïf / non naïf, ma confessa con spontaneità di essere una autodidatta. Ma questo percorso del tutto personale, che senza dubbio è stato sollecitato dal suo sradicamento, non del tutto indolore, e dal ricordo di un mondo di granitiche e favolose tradizioni contadine, ha in se stesso le sue ragioni stilistiche, oltre che poetiche.

Loretta dichiara infatti che «i colori nascevano dentro e assecondavano gli umori; i segni e i movimenti li sentivo addosso: se dipingevo un albero ero albero, se dipingevo un ballo entravo nella danza».

La pittura vuol essere dunque tutt'uno con la esperienza del mondo, dipingere le cose e esserne parte, forse un modo magico per dar materia a ricordi mai sopiti di un passato rurale che assume qualità mitica e il cui tramando nella pittura è privo di separazioni, nonostante il distacco quasi quarantennale della nostra artista dai luoghi di origine.

Le scene di vita domestica di quelle arcaiche e matriarcali famiglie allargate, la vita neu campi, rimandano a certa storica pittura nordica sempre umorosa ma a tratti non priva di asprezze, che si colgono qui, ad esempio, in quegli alberi che si fanno scure trine ramificate, o in quei cieli talora lividi e ventosi, cui contrastano l'animazione gioiosa delle occupazioni quotidiane o certe composizioni di ampio respiro, vernacolari ma al contempo sontuosamente allegoriche. E, comune a tutti i registri, le figurine agitano lo spazio, tendono le braccia, sembrano addirittura "fare catena", in uno scenario ove ci si può aspettare qualche misterioso prodigio. Spesso però gli uomini e le donne di Loretta Dorbolò si lasciano sorprendere in un abbraccio spasmodico, non sapremmo dire se passionale o doloroso, lasciando ai margini un mondo ormai irrimediabilmente lontano.

Pino Ligabue, Noi Donne Febbraio 2008

Gli orchi e le streghe di Loretta

Loretta Dorbolò è una pittrice totalmente autodidatta che, trasferitasi nella bassa modenese dopo il matrimonio, riesce a scorgere oltre le nebbie della mia terra il suo mondo, tipicamente friulano o sloveno, ma universale e a riportarlo con pochi tratti essenziali nei suoi quadri.
E la sua pittura è subito apprezzata e capita. Non ha caso le è stato chiesto di essere nelle pagine del "Tesoro del bigatto" di C. Pederiali, l'autore modenese che sa, come lei, vedere oltre la nebbia quel mondo magico.
E forse la grande bigatta è l'unico personaggio di quel mondo che lei non rappresenta.
Ma accanto a questo nei quadri di Loretta Doborlò c'è un'angoscia data forse dalla paura che il progresso distrugga per sempre questo mondo. Questa sensazione è stata ben colta da Carlo Sgorlon: "Ho parlato di gioia di vivere. Ma la Dorbolò sa bene che il mondo contadino e naturale è oggi minacciato e semidistrutto. Nelle sue tele si sente che l'industrialismo e la tecnologia lo stringono d'assedio, lo hanno ridotto ad un'isola che si va rimpicciolendo. Essi non si vedono, ma s'intuiscono: nel vento ciclonico che soffia iperbolicamente in certi paesaggi, con alberi spogli chinali fino a terra, nei temporali che percorrono il cielo, nella fioritura grottesca di ombrelli rovesciati dall'aria. L'ombrello diventa nella pittura della Dorbolò, il simbolo di un riparo insufficiente, che non protegge da nulla. Come accade spesso in questo genere di pittura, le scene a volte tendono ad assumere significati simbolici, minacciosi, o carichi addirittura di risonanze apocalittiche. Il mondo contadino straordinariamente ricco di favole, di superstizioni, di narrativa orale e di suggestioni arcaiche è minacciato dagli orchi e dalle streghe dell'industrialismo che dissacra e distrugge". Vi è nei quadri della Dorbolò il sospetto che quella cultura, che è durata per millenni abbia ormai i giorni contati.

Mirta Braghiroli tratto da Area Magazine, Marzo 2006

Una pittura istintiva la sua, senza maestri, senza cognizioni tecniche. Lei deve imparare tutto, ma non ne ha il tempo. Non ha il tempo di andare per mostre, di consultare libri. La necessità interiore di conoscere per creare si intreccia con l'imperativo del dovere che spezza il tempo, lo segmenta, lo riduce e tarpa le ali. Il dualismo donna - artista genera un conflitto tormentoso e irrisolto che lei rappresenta con brio e leggerezza nel bellissimo dipinto "La strega che taglia le ali" al sogno del volo libero e impossibile.

E' soprattutto di scena il paese della sua fanciullezza visto con la freschezza degli occhi di allora, apena sfiorato quà e là da un tocco leggero di ironia, ma reso comunque mitico nel ricordo e della nostalgia. Sono scene corali di uomini e donne che lavorano duramente, amano fanno festa, si riuniscono nel calore di una famiglia allargata, vivono la magia dei falò, si raccontano storie paurose. Una vita aspra, ma serena e sicura perche' vissuta in una comunità solidale, unita dalla tradizione e dai valori.

In altri numerosi dipinti lo spazio si restringe e balzano in primo piano diverse figure di donne innamorate, forti, stanche. Ricordiamone due per tutte. La madre che abbraccia la sua creatura in un vortice di amore infinito e la ragazza bionda, capelli al vento e ombrello lacerato a mo' di fragile scudo, che affronta impavida la tempesta. Esse sono uscite dal gruppo, per vivere una loro appassionata vita individuale d'amore e di speranza.

Un'inquietudine ben visibile circola in altre opere dette "dell'isola" in cui Passato e Presente si fronteggiano sull'isola della vita. La piccola umanità indifesa del passato che ama e sogna è minacciata dal presente meccanizzato e tecnologico che potrebbe travolgerla, apportandovi una solitudine senza scampo e un desolante inaridimento dei sentimenti. Di qui la necessità di trovare nel futuro una fusione armonica di antichi valori umani e moderne necessità. Opere simboliche e problematiche che la pittrice mi illustra con profonda partecipazione.

Finalmente pacificata. Se è vero, come è vero, che l'opera d'arte è l'artista, io non ho soltanto visto dei quadri artisticamente belli e interessanti, ma ho pure incontrato l'anima irrequieta e appassionata di Loretta Dorbolò.

Damir Globocnik, 2003 Lubiana (Slovenia)

La pittura dell'artista autodidatta Loreta Dorbolò testimonia un saldo legame con la vita di paese di un tempo. Tuttavia soltanto uno spettatore superficiale potrebbe inserire le sue opere nell'ambito delle semplici forme del genere contadino. Sebbene la pittura autodidatta venga spesso definita naif, non è detto che si tratti necessariamente di un'immagine semplice e limitata di un ambiente di paese, delle sue tradizioni e costumi, ma piuttosto di una grossolanità e rudezza volute, di una stilizzazione originale di figure ed oggetti e di un vincolo con un linguaggio artistico puro, chiaro e comprensibile. Nelle figure e nelle situazioni rappresentate si riscontrano spesso dei veri e propri studi caratteriali, che vanno ben oltre l'interesse documentario di questo genere di pittura.

Anche Loreta Dorbolò, oltre che dal richiamo di una memoria nostalgica e romantica della vita di un tempo nelle Valli del Natisone e dalla raffigurazione di diversi ambienti e personaggi di paese tipici e caratteristici, è attratta innanzitutto dai destini degli abitanti di paese. Nei frammenti di memoria dei tempi passati, che nelle sue opere risulta rielaborato in modo artistico ed originale, si ritrovano elementi della cultura materiale, sociale e spirituale della vita di paese. I racconti figurativi della vita di paese di un tempo di Loreta Dorbolò sono vicini alla nostra sensibilità. Con un approccio caloroso, la pittrice rivela i ricordi d'infanzia, i valori saldi e semplici del contadino ed anche le sue paure, esprimendo il suo legame con il lavoro quotidiano e i vincoli con la terra e la natura. Nelle sue opere uomo e natura rappresentano un tutt'uno. Nella pittura di Loreta Dorbolò una tacita nostalgia si lega ad un'atmosfera romantica, il realismo possiede un'intonazione espressiva, gli spunti umoristici sono intrisi dell'amarezza della vita.

Umberto Savolini, 1999 Lugano (Svizzera)

Volo lieve
di muta farfalla.
Solo l'odore dell'erba
il colore del cielo
e l'abbraccio dell’anima.
Non toccare
le sue ali
con le parole

Loretta Dorbolò, friulana di San Pietro ai Natisone si è fatta conoscere prima come pittrice, poi, in un bellissimo volume antologico per i suoi vent'anni di attività artistica (1977-1997) è venuta a galla anche la sua vena di scrittrice. Versi veloci, lievi, fluttuanti, come le figure dei suoi quadri.

Sfogliare le pagine de "La notte dei falò”, il volume che raccoglie le immagini e le parole di questa poetessa-pittrice è come ascoltare uno di quegli album discografici di qualche decennio fa i cosiddetti «concept» album (Le Orme, Deep Purple, Pink Floyd, eccetera), nei quali si raccontava, cantando e suonando, un'unica storia, colorata di sfumature. Anche Loretta Dorbolò, con i suoi quadri le sue poesie, i suoi racconti minimalisti dà forma e suono a un'unica storia; quella di un mondo contadino, arcaico, garbato, a tratti dolcemente ironico, che fa pensare a Chagall, alla pittura fiamminga, a Peter Bruegel il Vecchio e ai suoi futuri discepoli.

Vittore Castiglioni, 1999 Lugano (Svizzera)

E alla fine mi pareva di essere tornato a riascoltare anche le voci e i sentimenti della mia giovinezza ormai lontana, di aver ritrovata una mia patria ideale di sentimenti e di vita e allora mi sono rimesso a leggere quei versi, le parole di quei pensieri, e a contemplare le scene, le figure, la natura che le opere riprodotte della Dorbolò mi offrivano, quasi nel tentativo di ritrovare un'identità originale che oggi sento, se non affievolita, almeno frastornata. E di ritrovare una strana serenità. E non mi disturbava affatto quel suo stile (parlo delle opere) apparentemente cosi vicino ai modi "Naïfs".

Non il mezzo di un, falso semplice per costruire false poesie o false rappresentazioni, ma l'adeguamento naturale di un linguaggio all'urgenza espressiva di un autentico pensiero poetico che - come dice Carlo Sgorlon - si fa scatto fantastico.

La pittura della Dorbolò diventa una pittura di contenuti, una testimonianza di pensiero, un patrimonio di umanità del quale l'artista vuol farci partecipi. E allora tutto assume un suo significato inevitabile come una tessera di mosaico che mira a comporre una visione già intuita altrimenti come racconto unitario, nel quale ognuno può riconoscere quel che è "suo"; e lo specchiarsi di sentimenti fondamentali. E le luci dei falò notturni nelle piazze degli abitati sono i desideri di ognuno che affida i suoi al levarsi alto delle fiamme; e cosi hanno senso anche le streghe e la voglia che hanno di volare chissà dove al di là del reale e del possibile. E così il vento che viene contro con veemenza a lacerare l'ombrello ma che non riesce ad arrestare il cammino Duro della donna, quel vento, dico, può diventare l'allegoria della vita stessa e del suo non facile procedere.

Maurizia Cotti, 1999 Bologna

Loretta Dorbolò la bambina, la strega nel magico cerchio della creatività, tra nostalgia e utopia: l'enigma non disvelato sempre presente

"Io penso che l'arte sia proprio la capacità di trasposizione intatta di una situazione dell'anima" (da: Che cos'è l'arte, 1985, p. 98) Non c'è dubbio che Loretta Dorbolò, quando descrive l'arte, la propria arte ed il proprio percorso artistico, esprime immediatamente un'armonica sintesi tra memoria e vissuto, come se avesse avuto la grazia di interiorizzare cose meravigliose che poi restituisce sulla pagina o sulla tela, per un rinnovarsi di questa grazia. Non si tratta però di un vissuto che contiene un solo roseo colore per ogni avvenimento o solo una selezione positiva di ricordi ed impressioni, ma è la ricomposizione di frammenti e di tessere di mosaico per i più diversi percorsi, importanti non solo qui ed ora, ma necessari per coltivare insieme il coraggio nel presente e la speranza nel futuro.

Emblematico, nella sua complessità narrativa, è il quadro "La voglia di volare e la strega che taglia le ali" (1983 -85): si librano nel cielo, immaginario reso visibile in un quadro che parla di altri quadri e della loro genesi, un'anima ed il suo doppio. L'Artista, collocata nel suo spazio magico, dedicato al lavoro e alla composizione artistica, un po' solaio, un po' cantina dell'anima, solaio dei sogni e cantina dei ricordi, è colta prima non dell'atto, ma addirittura del progetto creativo, ancora a distillare gli umori e i sapori che metterà sulla tela. Una danza, una ridda, anche in senso etimologico, una sarabanda, un sabba di pensieri.

Dentro al cerchio magico della creatività si dissolvono i muri, si trasfigurano le dimensioni, più cielo che terra, più notte che giorno, più presenze della memoria che oggetti di conforto. Unica focalizzazione, gli strumenti del mestiere che danno il senso del concreto lavoro: i colori ed i pennelli, i solventi, gli stracci e, forse... la ramazza della strega. Lo sguardo dell'artista non si rivolge ancora ai pennelli. Oltrepassa i muri, si collega nel passato e nel futuro a ricordi e sogni e desideri e strane nostalgie, non di ciò che non c'è, ma di ciò che ancora non è e non è detto che sarà.

Corpo, mente e anima hanno bisogno di scioltezza. Via le scarpe, via i muri, via lo scialle, via lo sguardo dai quadri già finiti e tenuti lì a segnare un confine, forse di tempo, forse di spazio, monito contro le intrusioni, in una corale inquieta attesa di una evoluzione, una maturazione, della voci trasfigurate dell'esperienza del mondo.

E, corpo e anima, hanno bisogno di armonia. La musica non può che essere in sottofondo, a richiamare altre musiche interiori, a far fluire i ricordi dal pozzo che li rinchiude, a far sgorgare quelle forze così inclini a lacerare all'interno. E gli alberi scheletrici che affiorano dai contorni di questo luogo mistico continuano a protendere i rami, in muta iconica empatia e attendono, come l'artista, che la linfa prenda il suo corso e che l'energia che ne deriva si trasformi in germogli. Un'attesa sacrale, resa pura dalla solitudine e dalla compresenza di moti caotici dell'animo, in lotta fra loro.

Ma quale strega rinuncerebbe al suo gatto nero? Non fosse altro perchè empaticamente, sinestesicamente è un'immagine speculare di se stesse, nei momenti di sincera, spietata autoriflessione.

Sono qui
inarcata e arruffata
come un gatto in agguato:
Gli artigli sono pronti.
Saprò essere ubbidiente?
(1997)

Non è un caso che Loretta Dorbolò, pittrice e narratrice con le sue composizioni pittoriche e narrative e poetiche raggiunga immediatamente gli altri, che guardano, leggono ed assorbono, non solo visivamente, i suoi quadri ed i suoi testi.

E se per Alda Merini, "non esiste poesia che non sia anche disegno, musica" (p. 116), questa è la cifra personale dell'artista che intreccia poesia e pittura in un dialogo che è anche riflessione sulla pittura e sulla vita. Non si tratta di contaminazione, ma di un vero e proprio, proficuo defluire da uno all'altro piano, che favorisce il confronto, l'approfondimento interiore, la riflessione metacognitiva, in un atto di rimotivazione circolare di tutta l'opera. Pertinenze che passano da una poesia ad un quadro, ad un altro quadro e ancora ad un'altra poesia...

Basti osservare il quadro "La gallina depressa". Gallina, epiteto per donna. La gallina fa parte di un bestiario fiabesco, o non è piuttosto una metafora ironica di un'impotenza storica, socialmente determinata, apparentemente "naturale", che per un caso, forse, del destino, o per uno scherzo della natura, è divenuta consapevole?

Ma può mancare ad una gallina, in modo lancinante, il senso di un'esperienza mai avuta? Il desiderio di provare un'esperienza contemporaneamente alla percezione di non possedere gli strumenti (le ali), se non addirittura le potenzialità, che cosa provoca, se non masochistica depressione? Il contrasto paradossale donna/gallina consente un parallelo umoristico, umorale ed istintivo, tramite la complicità nel sorriso, con la condizione femminile, espropriata non solo di molte possibilità, ma anche indotta a negare che il bisogno di esprimersi in molti campi, non tradizionali, sia una vera esigenza. Ciò a cui induce l'artista, tramite la negazione ironica, è la trasformazione di un dato pressochè "naturale", nel suo dileggio; inducendo alla risata, infatti, invitando ad un liberatorio parallelo, l'artista ribalta, in effetti, in maniera paradossale e umoristica una convinzione data per certa e acquisita in secoli di preminenza patriarcale e maschile, fissata quasi a livello di detti e proverbi. Forse è venuto il tempo che anche gli uomini sentano la mancanza di cose che non hanno mai provato. E la donna può pensare di potere appropriarsi di un po' di libertà, e di un po' di leggerezza.

Emilia Mirmina, Udine 1998

Incontri

E' la seconda volta che mi occupo di Loretta Dorbolò, un'artista poliedrica, che a suo tempo avevo apprezzato per la sensibile e suggestiva tematica delle sue pitture, nelle quali ella presenta in termini fiabeschi il mondo della sua infanzia.

Questa volta torno ad interessarmi di lei, perchè mi sono trovata davanti ad un nuovo, più complesso profilo di questa artista delle Valli del Natisone, quando ho avuto in mano il suo libro "La notte dei falò", nel quale ella ci propone ancora una serie di immagini di quel paese lontano e magico che sono i luoghi dove ha vissuto l'infanzia e la prima giovinezza, associandole però ad una serie di versi e di "vagabondi pensieri", che sono l'elegia delle sue memorie perdute, legate indissolubilmente alla sua terra, lontana dalla quale la nostra artista soffre costantemente di una profonda inguaribile nostalgia..Di questo complesso fatto di visioni e di parole possiamo dire che la scrittura è complementare al discorso per immagini, il quale sembra essere servito alla pittrice per fermare per sempre, imprigionandone i motivi più significativi, un mondo antico e incomparabile.

Quanto la scrittrice ha fermato nelle sue pagine, in versi o in prosa, ci aiuta a comprendere la nostra nostalgia, mentre lei stessa traduce per noi sensazioni e sentimenti che ognuno di noi ha provato.

Il suo discorso poetico risulta perciò tanto umano quanto avvincente, e ci travolge nel clima che ella ha creato, trasportandoci nel suo mondo, con convinzione assoluta. Che è in fondo il risultato magico di ogni opera di vera poesia.

Mino Milani (1997)

Ho detto di quadri che paiono più o meno conclusi, va bene, la conclusione per esempio la vedo in quegli abbracci struggenti e finali: tutto ritrovato, tutto chiarito, nulla più di cui avere paura, gli ombrelli non servono più, siamo arrivati.

Aperta, invece, è la marcia coraggiosa della ragazza che se ne va nel vento, abito e capelli al vento, l'ombrello come la lancia di un antico soldato, e quando sarà inservibile alla battaglia, eccone un altro di riserva. Non mi sembra giusto mettersi davanti a questi quadri e a queste righe solo dopo aver indossato il nero mantello del filosofo, o quello stellato dell'indovino.

Sia quel che ha da essere, la pittura di Loretta Dorbolò la si può godere anche senza star lì a caricarsi di domande, ed anzi chissà che non sia meglio farlo così, anche a costo di qualche errore.

Spender scrive, in una delle sue più belle poesie, che al momento della morte, William B. Yeats divenne i suoi ammiratori, e probabilmente questo è ciò che tocca ad ogni poeta, ad ogni artista, e anzi a chiunque compia un atto o esprima una opinione che debba o possa essere pubblicamente discussa: si può sempre essere fraintesi, capiti solo in parte e certe volte addirittura non capiti; quello che tuttavia conta è infine spargere un po' di bene, un pochino di poesia, forse un atomo di verità.

Alfredo Gianolio (1995)

Non so fino a che punto consapevolmente, ma mi pare indubitabile che la comunicazione visiva di Loretta Dorbolò si inserisca in quel movimento artistico-letterario che - come ha osservato Walter Binni - ha visto ridestarsi nel Friuli la coscienza locale, «tornata più direttamente alla rappresentazione lirica del mondo contadino e del paesaggio friulano» ove si colloca anche «la fase giovanile forse più schietta della poesia di Pier Paolo Pasolini».

La realtà locale friulana, allineata da oriente ad occidente lungo il margine delle Alpi, luogo di transito e di fortissimo esodo, è stata rivissuta dalla Dorbolò con notevole intensità dal momento in cui, anni fa, se ne è allontanata per trasferirsi nella pianura padana. Non in chiave di nostalgia, ma di drammatica rivisitazione di eventi in cui la fuga dalla realtà si contrappone al desiderio di radicamento e gli affetti non si stemperano in idilliaci abbandoni, ma si pongono al centro di sconvolgenti avversità, simbolicamente rappresentate dalla sferza del vento e dal tentativo di resistervi. In modo completamente autonomo, senza porsi alcuna finalità illustrativa, l'immaginario della Dorbolò si accompagna naturalmente, come una seconda dimensione, alle rappresentazioni narrative degli scrittori che si sono occupati di questi luoghi e della loro gente. A cominciare da Piero Chiara, che nel romanzo Vedrò Singapore parla di San Pietro al Natisone e di Cividale e scambiò con Loretta, impressioni sulle atmosfere e le suggestioni della vallata dominata dal monte Matajur. E poi Fulvio Tomizza che, per portargli un messaggio di Piero Chiara, incontrò un'estate alla presentazione del suo romanzo Gli sposi di via Rossetti, nella cui opera si riscontra un'analoga lacerazione fra la nostalgia della casa e lo sradicamento come protesta. E inoltre Carlo Sgorlon che, senza alcuna sollecitazione, ma "per affinità elettive" sorprendentemente le dedica un'ampia ed articolata presentazione.

Licio Damiani (1995)

Loretta Dorbolò usa colori secchi, bruciati: dai bruni ai bianchi senza gioia materica, dalle terre ai fulvi, dagli azzurri e cilestrini, di una levità vuota, agli ingorghi fangosi. E allora le figurette, pur se delineate con ricchezza festevole di appunti descrittivi, assumono la sostanza di ombre, o di echi risuonanti in uno spazio inventato. E, allora, non resta che immaginare il calore delle cucine di una volta, con il focolare, i bambini raccolti intorno alla tavola a giocare a dama, gli adulti intenti al rito della sgranatura delle pannocchie, bloccati nei gesti come in una visione, frammenti di un tempo rimasto immobile da chissà quando e che emerge incantato.

In questa pittura, dunque, un sottofondo ricco e colto veste i panni della semplicità e del candore. Un sottofondo figurativo che va dalle visioni contadine di Brueghel, come nella coralità di un'opera del '78 Paura, fiducia e volontà, ma anche dai pitocchi e dai quadri devozionali seicentisti, passati attraverso le saghe neorealiste degli anni Cinquanta dell'isontino Sergio Altieri, alle favole surreali di Chagall che restituiscono figurette volanti in spazi siderali, scaturiti da scatoloni e interni domestici abbandonati, ai pretini danzanti nel vuoto, con una leggerezza lietamente stregata, quasi felliniana, di Nino Caffè.

Ragazzini accovacciati sugli alberi o dondolanti sull'altalena in momenti di vendemmia inseguono a occhi aperti un alitare tra le nubi di carri festosi che portano famiglie verso feste di ideali domeniche e di paesini fiabeschi capovolti, come riflessi negli stagni quieti dell'immaginazione. Ma la strega delle favole raccontate una volta dai nonni, intorno allo scoppiettìo del fuoco, riaffiora dai ricordi tempestosi della coscienza, è la strega di un oggi che taglia le ali a ogni illusione e lascia nell'animo soltanto una fosforescenza di stelle infrante, come la pioggia di luccichii che scorre sul cielo notturno in cui sono per sempre consumati i fuochi d'artificio. Pittura autobiografica, questa di Loretta Dorbolò; esprime un'inquietudine nascosta. Per liberarsi, l'inquietudine ha bisogno di prendere i toni della favola.

Michele Fuoco (1990)

C'è in queste opere una ricerca di innocenza, ai bordi dell'incombente civiltà dei consumi, di calda dolcezza degli affetti domestici nella sana e familiare intimità, ma anche la consapevolezza che nel momento in cui si ha voglia di volare, c'è sempre una strega che taglia le ali. E gli esiti migliori si hanno proprio in quei dipinti dove emozione e meditazione sollecitano lo scatto dell'immagine (Paura, fiducia, volontà, Pensieri di mezzogiorno meno dieci, La fuggiasca, In balia di quale vento?). E' forte in Dorbolò l'ascolto interiore, connesso strettamente alla meditazione autobiografica, al piccolo sogno di confidenze, di abbandoni e di amori (Più dell'immenso, Rifugio di braccia, Speranza di sereno) che portano a "ventagli" espressivi di disinvolta naturalezza.

Giorgio Crema (1989)

La Dorbolò nella sua intimità ha ben presto capito che è possibile creare e proporre, anche per mezzo della pittura, un mondo più umano, più vivibile, conciliando il passato, senza cancellarlo nell'oblio totale, con la realtà attuale che è fatta anche di progresso tecnologico. E' questo, a mio modesto avviso, il segreto dell'ispirazione profonda della pittrice di Concordia sulla Secchia. La pittura è ancora per lei una necessità "esistenziale", una fonte di liberazione da certi incubi, una fonte di felicità, un invito a gustare e ad apprezzare le gioie più semplici della vita. Il suo messaggio pensiamo che sia già stato recepito da coloro che visitano le esposizioni, perché possiede la capacità e il dono innato di procurare dei fremiti di stupore a coloro che osservano ed ammirano le sue opere.

Ferruccio Veronesi (1989)

Già avemmo occasione di scrivere su queste pagine che la pittura di Loretta ci riconcilia con la vita per le sue festose composizioni affollate come antichi arazzi. Impropriamente qualcuno ha voluto accostare questa pittura a quella di Ivan Generalic. Il fondatore della scuola iugoslava di Hlebine (non lontana dal Natisone) è in realtà più compatto, più solido. Per l'allegra e un po' folle concitazione delle sue tele, mosse da un vento di magia, la Dorbolò presenta maggiori affinità con Kovacic, con Lakovic, con Ivanec ed altri da noi poco noti ma assai popolari in Jugoslavia.

 

Enzo Fabiani (1988)

Siamo alla fusione della realtà e della fantasia, del colore e del sentimento; a un'azione inventiva grazie alla quale e nella quale tutto si crede o si spera possibile. Proprio come avviene spesso nelle famose "villette" friulane, dove ad esempio l'innamorato dice: Montagnutis ribassaisis - Faimi a mi un po' si splendor, - Tant ch'o viode anche na volte - Là ch'o levi a fa l'amór - (Montagnette, abbassatevi, fate un poco di splendore, che io guardi ancora una volta dove andavo a fare l'amore); dove quel chiedere alle montagnette di abbassarsi eccetera ci riporta a una sorta di spirito "primitivo", diremmo di "storiella" medievale. Come avviene anche in un'altra bellissima quartina, che dice: Lis montagnis si slontanin - E lu cìl si va slargiand; - E cussi la me' morose -'E si va dismentéand (Le montagne si allontanano, e il cielo si va allargando, e così la mia ragazza si dimentica di me). Ovviamente a dare bellezza e magia a queste espressioni poetiche, molto contribuisce la lingua friulana (come anche spesso il motivo musicale); ma a noi qui interessa il rilevare come la Dorbolò abbia una uguale o simile capacità di invenzione e di rievocazione. La prima porta a dipingere, diremmo rusticamente, scene e scenette di vita campagnola, nella quale definisce e accomuna persone e cose tipiche dell'ambiente (capoccia, massaie, cani, gatti, tinozze, galline, eccetera) e insieme, almeno a volte, i sogni e le fantasie possibili e le situazioni curiose (paeselli capovolti nel cielo, cavalli tra le nuvole, streghe volanti evidentemente longobarde). Contemporaneamente, avviene una sorta di rievocazione visione.

Cioè: le donne intente alle loro faccende, le bambine che salgono per lunghissime scale, la mamma che fa il bagno al figlioletto, le ragazze che sognano ad occhi aperti, appartengono al tempo in cui la pittrice viveva a San Pietro al Natisone, dove è nata, e magari andava a far merenda al Pulfero o a Ponteacco e Clenia. Ma ecco che, mediante la pittura, tutto diventa anche e specialmente visione accesa, trasognata e, grazie al colore, come trasfigurata; rafforzandone così sensi e significati, ed evitando il rischio dell'illustrazione. Ne deriva che il quadro diventa specchio di antiche verità, di ricordi, di sentimenti, di ritmi di vita ormai tramontati, e per ciò da rimpiangere e insieme da esaltare in un omaggio affettuoso, poetico.

Ed anche qui come non immaginare che la contadinella incantata non stia ripensando a quanto le ha detto incontrandola ieri quel bel giovanotto che da tanto la fissa amoroso e voglioso, e cioè: Ches tetinis, ches tetinis, - Cuand mes dastu di bassa? - Lor son duris, tarondinis, -Jò lu sint in tal palpa... (Quelle tettine, quelle tettine, quando me le dai da baciare? Sono dure, rotondette: me ne accorgo nel toccarle). D'istinto Loretta Dorbolò ha trovato un suo modo di essere come artista.

Ferdinando Anselmetti (1988)

Bellissimi gli esterni sfrugugliati dal vento nel gioco degli ombrelli variopinti coi quali ama scherzare: in una danza in cui i vortici li avvincono, come amplessi di giovani amanti. Bellissime le composizioni di campi dorati, dove i carri carichi di covoni percorrono, con le contadine festanti, le maestosità di un carnevale a Viareggio; dove i cieli imbronciati negli azzurri o giallini, sembrano riflessi nell'ebbrezza dei raccolti.

Il tutto inteso e rappresentato in una composizione le cui modalità artistiche si esprimono a rigore aperto: alternando spazi e prospettive senza regole, nel gioco sapiente della composizione arbitraria, nella inusitata tonalità dei colori suadenti.

Relativamente alla sensibilità avvertita nei soggetti la Dorbolò si avvale di un'altra risorsa creativa, adattando le poesie da lei scritte a uso di un'interpretazione pittorica; e spesso volentieri usando, come titolazione al quadro, uno stralciato suo verso. Traspare così, qualora fosse ancora necessario, quel senso ritmico che in pittura si traduce nell'equilìbrio compositivo: come nella poesia la perfezione dell'endecasillabo.

Nevio Jorì (1987)

Loretta ha quel disegno raffinato che sta fra il maggior grafico Lackovic e il Maestro Generalic. Descrive in "italiano", diciamo meglio, in lingua-grafia corretta, mentre i sentimenti sono espressi con molto intuito naturale nell'armonioso dialetto slavofilo.

Già i colori (che sembrano essere usciti dalle nebbie padane) hanno tonalità quasi slava, di più pacata esuberanza, anche se vivacemente contenuti. Il grigio, l'azzurro, l'ocra e il tenue rosato si alternano nei giochi timbrici e tonali. Certo mancano gli effetti del sotto-vetro, quei risalti che abbelliscono oltremodo le opere degli slavi. Ma Loretta Dorbolò preferisce la tela che dipinta ad olio si vincola al tempo futuro con le proprietà che ne fanno storia.

La sua poetica è d'ambiente, narrativa della vita di un tempo, sempre meno viva dai monti alle colline, e, meno ancora, nella Padania.

Mai la sua grafia scade nell'ingenuo, ma ingenua è la narrazione fra realtà e sogno dell'infanzia, che rivive con fervore nelle opere. E candida la visione ristretta di una poetica intimità, quasi sottaciuta, solo "ascoltata" col battito del cuore nel tempo.

Basilio Cadoni (1986)

Loretta Dorbolò ha tanta spontaneità e immediatezza. Per l'iterazione delle figure si è citato Brueghel il vecchio: per le analogie folcloristiche, oniriche e fiabesche si potrebbe anche, e meglio, citare Chagall. Ma l'essenziale della Dorbolò non si ritrova nelle somiglianze patronimiche bensì nella coralità della sua pittura-racconto (un narrare ed evocare per immagini e colori), nella scelta di fare poesia con i pennelli piuttosto che con le parole.

Ma, credo, un aspetto non ancora focalizzato è quel senso impalpabile e indefinibile di melanconia, di rassegnata, impercettibile tristezza nascosta dietro la serenità dei volti e che scorre nel sangue della sua gente friulana, gente di frontiera, d'emigrazione, di guerre, di sciagure che l'hanno segnata in profondo.

Questa non scoperta tristezza si manifesta appena nelle tonalità celesti e azzurrine che raffreddano il calore delle sue composizioni. Riecheggia quel senso tragico del destino, celato sotto ogni sorriso, che fluisce nelle pagine friulane di Carlo Sgorlon. Più che un'affinità è un'impronta genetica.

Derna Querel (1986)
Loretta Dorbolò ora è alla Feluca, la romana galleria che ha fatto conoscere decine di artisti naïf. Loretta Dorbolò non è una pittrice naive, ma racconta storie di un mondo "raro" che spesso è protagonista nell'immaginario dei naïf. In ogni caso è un mondo che parla ai grandi, piccini, potenti, ricchi, poeti, letterati. Come Piero Chiara, Sgorlon.

Carlo Sgorlon (1986)

Mi piace soprattutto, nella Dorbolò. la sua voglia di proseguire per la sua via, in modi estrosi, divertiti, umoristici e stupefatti insieme, di voltare le spalle ai modi dei maestri e dei mostri sacri della pittura moderna. Mi piace il suo scatto fantastico, la sua "voglia di volare", che è vitalità estrosa e surreale...

Ma c'è nella Dorbolò anche una sorta di inquietudine espressionistica, di dramma oscuro, implicito nelle cose. Vi è come uno svolio e divincolìo degli oggetti, percorsi da un vento magico. Nel momento stesso che racconta l'universo della sua infanzia, stregato e concreto, la Dorbolò lo avvolge in un velo di umorismo e di autoironia. Lo guarda dal di fuori, ne conosce i limiti perché ha perduto l'ingenuità della visione. Ma le piace raccontarlo con vivacità fanciullesca, con brio descrittivo, minuto e travolgente, che attinge da una cisterna senza fine.

Come accade spesso in questo genere di pittura, le scene a volte tendono ad assumere significati simbolici, minacciosi, o carichi addirittura di risonanze apocalittiche. Il mondo contadino straordinariamente ricco di favole, di superstizioni, di narrativa orale e di suggestioni arcaiche, è minacciato dagli orchi e dalle streghe dell'industrialismo che dissacra e distrugge.

Vi è nei quadri della Dorbolò il sospetto che quella cultura, che è durata per millenni, abbia ormai i giorni contati.

Paolo Petricig (1985)

Mi si potrà dire che nell'artista c'è stata un'evoluzione, che il suo linguaggio pittorico e formale è maturato, che il colore e la composizione hanno subito trasformazioni importanti. E' innegabile una maggiore disinvoltura espressiva, una moltiplicazione incredibile di motivi, scene particolari; innegabile un graduale superamento della cronaca del quotidiano della ricerca di qualcosa di universale, che si leghi alla condizione generale dell'uomo, della gente: quella di muoversi quasi in un circolo chiuso - isola, cortile, casa che sia - senza prospettive di uscirne. Questo io vedo di nuovo in diversi quadri di Loretta Dorbolò, sia pure in una pregevole continuità di ispirazione.

Ma allora l'infanzia, la casa di Biarzo, la vita della famiglia patriarcale non sono più stupefatta contemplazione e memoria dell'età felice o rimpianto acuto di essa, ma riflessione attorno alla condizione dell'uomo, che io vedo sempre meno legato agli altri per quanto ognuno si sforzi di rimanere al suo posto nella recita imposta dal teatro della vita, si sforzi di rimanere fisso nel ruolo che gli è stato assegnato ed immerso più che mai nel suo mondo. E' tuttavia proprio questo mondo che contiene l'uomo in modo diverso, e tenta di separarlo in gruppi, di dividerlo dagli altri e ciascuno diventa partecipe ad un proprio specifico gioco, ad una sua identità e collocazione.

Sebastiano Saglimbeni (1983)

Ciò che soprattutto colpisce del racconto è la disposizione, di figure di uomini, donne, bambini, stabilita con una precisa geometria e movimento armonioso. Pittura per l'infanzia, in quanto, in questa, bambini poserebbero gli occhi e l'anima, ma anche una pittura che vuole registrare rivisitazioni di un mondo da dove tanti siamo passati come in sogno; e realmente, giacchè l'aria aperta, la salubrità di questa ci ha sempre spinto ad uscire dagli spazi domestici, attratti dalla natura. Che qui, nella sua integrità, campeggia nelle tele di Loretta Dorbolò con i suoi protagonisti che quando sono alberi svettano con rami a spirali in cieli tersi, di cobalto.

La coloristica ci pare un po' trapassata, ma era questa la più congeniale all'artista per la costituzione di simili scritture. E la Dorbolò da più anni educa queste con una partecipazione d'animo afflitto e puro per il genere umano perduto - direbbe Elio Vittorini -; e così determina folle e terre che nei quadri si leggono investite da una luce di religiosità che si fa pace, fratellanza e amore. E ciò vien fuori dagli atti umili delle persone che cercano dialoghi per non restare sole, come dagli alberi e dal terreno, senza spine o erbacce, mondati. "Il progresso", ha scritto in una sua nota la pittrice, "è la riconquista del paradiso terrestre". Pagine veramente gnomiche che farebbero piacere a Giovanni Testoni, a quegli interpreti di poetiche pittoriche pure e che sempre - ecco l'esempio - si ripropongono, nonostante tanta cultura del genere avanzata.

Arrigo Brombin (1981)

Moderatamente caricaturale, l'abbozzo dei personaggi risulta espressivo, il loro atteggiamento non molto lontano dal vero. Varie scene paiono tolte da un geloso album di ricordi personali, rivelano cioè un'origine intima più che ingenua, hanno il tono di una positiva rivisitazione delle proprie esperienze, più che d'un vagheggiamento.

Dipingendo la fila di sorelle in attesa sulla panca, mentre una è dentro al mastello per il bagno settimanale; o la concisa ed animata teoria d'ombrelli aperti lungo il cammino sotto la pioggia, la Dorbolò ripensa all'ambiente in cui è cresciuta - una realtà che ancora esiste in qualche angolo non proprio "fuori dal mondo".

Giuseppe Morselli (1980)

Forse questo non è più tempo di favole, eppure la vicenda artistica della pittrice Loretta Dorbolò in qualche modo si identifica in un sogno lontano di fantasie perdute, assomiglia ad una favola. E allora, c'era una volta una ragazza che viveva in piccolo sperduto paese del Friuli, dove il ritmo di vita era scandito dalle immutabili stagioni, dai sicuri affetti familiari, dai riti quasi mistici della stagione agricola. Erano tempi fatti di aria pura, di limpide montagne all'orizzonte, di un fiume sempre chiaro, di calze e lenzuola stese al sole, di rituali meravigliosi come la semina, la mietitura, la vendemmia, la spannocchiatura del granoturco. Tutte cose che Loretta Dorbolò ha incasellato nell'anima, gelosamente ritenuto sul filo della memoria, accantonato in un ideale cassetto fatto di sogni e nostalgie.

Perchè, in seguito, le vicende della vita l'hanno portata a vivere nella Bassa Padana, in un mondo tutto diverso, fatto di nebbie e silenzi operosi, di finta cordialità e di un diverso modo di interpretare la vita.

Ma proprio dall'impatto con un mondo per lei tutto nuovo è scattata la molla di un desiderio che forse da tempo era latente, un modo per riaprire il vecchio cassetto, per liberare i sogni. Il desiderio di dipingere, di esprimere nel modo più primitivo, immediato e poetico, quel tumulto incontrollato di sensazioni che scaturivano dalla fusione fra il suo vecchio mondo patriarcale e la nuova diversa realtà. Una sorta di recupero del fantastico in cui era cresciuta e il nuovo modo di essere, forse uguale ma tanto diverso.

Romana Bagni (1977)

E' fresca, è fatta di silenzi e di tenacia, di soliloqui e di sentimento. E' la pittura di Loretta Dorbolò, friulana, in Emilia. Le sue immagini della fanciullezza portano quasi l'odore verde, la simbologia giocosa, la garzata fantasmaticità

Loretta Dorbolò, dipingendo, sciorina un desco di comunione espressiva: compatto e caldo al pari del legno friulano, che sa di pialla e di resistenti fatiche. Nascono così, vere e commoventi, le sue figurine di vecchi e di bambini nell'atmosfera silente della campagna: ingenuità dell'anima che sogna, e vuole vivere di concretezza.

Loretta ha scritto: "...Se il cielo rispondesse... non più chiedere amore, ma donare amore... il cielo tace. La risposta è dentro...". Le si potrebbe applicare questa etichetta definitoria: "Nel braccio della bambina". C'è un piccolo quadro che in proposito dice tante cose: mamma e figlia accanto ad un albero. La bimba guarda di fronte, al futuro. La donna si volge al passato. Intorno, fiori emblematici, colorati di giallo. Ma stretta nel braccio della bimba, e rimpicciolita alle dimensioni di bambola, sta ancora la madre, che guarda di nuovo al futuro. Si, perchè la Dorbolò, adulta consapevole, se ne sta dentro al braccio rigeneratore dell'infanzia innocente, motivo struttura del suo dipingere. E perchè infine immagini e colore le servono, flessibili, a definire dentro di sè, la creatura che lei vuole essere, in desiderio relazionale di amicizia con il mondo. Da qui tanta ricchezza narrativa.

Salvatore Fangareggi (1977)

La pittura di Loretta Dorbolò è di quelle che si affrontano con trepidazione, per il timore di equivocarne il significato, se l'osservazione non è sorretta da intenti di sincero approfondimento. Gli echi primitivi si smorzano più che risuonare con continuità, e dunque non è il caso di indurre classificazioni di moda: perché questa pittrice cancella progressivamente i colori fino ad approdare ad immagini tutte color terra e seppia? Perché, pudicamente, le figure che animano le composizioni hanno la tendenza a nascondere il volto? Questi ed altri interrogativi si sovrappongono, ed accentuano il carattere stimolante di questo modo di esprimersi pittoricamente.

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